Ogni sera con il cane esco, svolto l’angolo e cammino cinque minuti lungo un gran viale alberato.
Costeggiamo due aiuole, passiamo un semaforo, poi traversiamo, sempre allo stesso angolo.
Una piccola anonima via, nessuno in giro. Mi fermo davanti a un portone illuminato.
È uguale, ancora. Scorro i nomi sul citofono, come se potessi trovare il suo.
Alzo gli occhi a un balcone: lui coltivava rose e gelsomini, ora è spoglio.
Quante volte, quando avevo venti o venticinque anni, mi telefonavi, e io rispondevo distrattamente, e non avevo mai tempo.
Altre, allora, erano le telefonate importanti, altre le cene che non volevo perdermi.
Ma cosa darei ora, papà, per ritrovarti per un solo minuto, e quante cose avrei da domandarti.
Adesso che ho dei figli di vent’anni capisco l’ansia pudicamente trattenuta nei tuoi occhi, e il desiderio di bene, e le domande che premevano ma non osavi farmi.
Sono esattamente le stesse che adesso io vorrei fare ai miei figli – ma non posso. Ci sono cose di cui, fra padri e figli, si tace.
Quante parole non dette, mi dico, camminando verso casa. Né dell’amore, né di Dio noi due abbiamo mai parlato.
Ma vedo ancora così vivi quei tuoi occhi: c’era tutto dentro, sperato e non pronunciato.
Il cane mi segue docile, a quella strada abituato.
di Marina Corradi
La Redazione