Articolo: Bob Marley, il re del terzo mondo

L’11 maggio del 1981, trent’anni fa, l’artista morì in uno ospedale di Miami per un cancro non curato: a quanto pare, seguendo alla lettera i precetti del credo Rasta l’artista avrebbe rifiutato l’amputazione di un alluce al momento in cui fu rilevato un melanoma. Aveva 36 anni e lasciò un vuoto enorme. Gino Castaldo, Repubblica.it, maggio 2011


Chi c’era non l’ha mai dimenticato. Il 27 giugno del 1980 Bob Marley, l’eroe del terzo mondo diventato un re della musica planetaria, il profeta della cultura Rastafari, arrivò in Italia allo stadio di San Siro di Milano per quello che sarebbe stato uno degli eventi più memorabili nella storia dei concerti nel nostro paese.

Una serata magica, avvolta da un’aura quasi sovrannaturale, col protagonista spiritato, agitato da lenti spasmi del suo sottile corpo e il capo traboccante di lunghissimi dreadlock.

Nessuno ha dubitato per un solo istante che l’artista fosse lì sul palco per conto di una qualche missione superiore. Tutto portava a quello: la musica, le parole infuocate, la ritualità profonda, l’urgenza emotiva.

In quella magica serata, con centomila persone stregate dalla ipnotica trance del fluente e carismatico reggae che Marley sapeva generare, nessuno avrebbe mai potuto immaginare che quello sarebbe stato uno dei suoi ultimi concerti.

L’undici maggio del 1981, esattamente trent’anni fa, morì in uno ospedale di Miami a causa di un cancro che si era esteso a varie parti del corpo, non curato per tempo, a quanto pare, a causa della volontà dello stesso Marley che seguendo alla lettera i precetti del credo Rasta avrebbe rifiutato l’amputazione di un alluce al momento in cui per la prima volta fu rilevata la presenza di un melanoma. Aveva appena 36 anni e lasciò un vuoto enorme.

La Giamaica, la sua terra, che lo aveva blandito e discusso, dove aveva subito attentati, dove aveva cercato la riunificazione politica dei due partiti che con il loro conflitto stavano lacerando l’isola, gli tributò i funerali di Stato.

In pochi anni aveva preso i germi più autentici della musica giamaicana e li aveva portati sulla cima del mondo.

Era nato in povertà, figlio di una giovane donna isolana, Cedella Booker, e di un bianco, un ex ufficiale della marina, in un misero villaggio dell’interno, Nine Mile, dove poi è stato sepolto e che oggi è diventato il santuario del culto, un luogo vigilato giorno e notte da adepti Rasta che vendono dei libretti con le sue frasi più significative intitolati The book of prophecy.

Perché questo era Marley, il ragno della leggende pagane delle antiche religioni giamaicane che aveva sconfitto Babilonia, che aveva portato l’autentica voce degli spiriti giamaicani nel cuore dll’Occidente.

Marley era cresciuto nel ghetto di Trenchtown, con un’insopprimibile vocazione musicale che si concretizzò col suo primo gruppo, i Wailers, una band fondata sulla personalità delle tre vodi guida, Bunny Wailer, Peter Tosh e lo stesso Marley.

L’uomo decisivo per la sua evoluzione fu Chris Blackwell il fondatore dell’etichetta Island, che capì per primo le potenzialità del reggae, e in particolare di Marley, e riuscì a lanciarlo sul mercato anglosassone, con un successo che spiazzò la scena musicale, e funzionò come un’onda irresistibile che contagiò il rock mondiale.

Pochi resistettero a quella fascinazione, e perfino il punk, complice la vicinanza con le comunità giamaicane a Londra, incluse il reggae nel suo ristretto mondo stilistico. Chiaramente Marley era un personaggio unico, la sua potenza andava oltre lo stile, e possiamo esser certi che dovunque fosse nato avrebbe inventato la sua rivoluzione.

Nelle sue canzoni c’era sempre un doppio livello, il primo attinente alle sue origini, ai contorni della cultura giamaicana, l’altro più universale.

Quando predicava l’esodo (in Exodus) si rivolgeva al “Jah people”, al popolo di Jah, riprendendo le teorie del ritorno in Africa che erano state predicate molti anni prima da Marcus Garvey, ma allo stesso tempo disegnava l’utopia che rispondeva al disagio e ai conflitti che alla fine degli anni Settanta stavano dilaniando il mondo occidentale.

Ha insegnato al mondo, continuando una tradizione che appartiene a tutte le Americhe nere, che si può pensare o lottare per i propri diritti, danzando, riunificando la scissione tra corpo e mente che la nostra società ha perpetrato per secoli.

La leggenda racconta che le ultime parole prima di morire, dette al figlio Ziggy, furono: “I soldi non possono comprare la vita”. Succedeva esattamente trent’anni fa.

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