Parla la scrittrice, Susanna Tamaro, che dopo vent’anni è tornata in cima alle classifiche con Ogni angelo è tremendo, il “romanzo vero” della sua formazione. Maria Giulia Minetti, La Stampa.it
Vent’anni dopo Va’ dove ti porta il cuore, Susanna Tamaro è di nuovo in cima alla classifiche di vendita. È schizzata lassù con un libro dal titolo bellissimo e sconcertante, Ogni angelo è tremendo, un verso di Rilke che è l’epitome, dice, la chiave di questo suo ultimo lavoro: «L’angelo è in bilico tra la luce e l’abisso, l’angelo è consolatore ma anche sterminatore. Ha due facce. Dobbiamo guardare il suo volto oscuro, gestire la tenebra…». Con un guizzo, Tamaro cancella il sospetto dell’enfasi, torna colloquiale, sarcastica: «Io l’ho gestita in abbondanza».
Personalissima, intimissima la storia che racconta, in linea con la sua ripugnanza per la letteratura d’occasione. «Odio scrivere a comando, su temi scelti da altri», afferma nel libro. Ma poi si scopre che proprio questo libro nasce da un tema suggeritole da altri, nel caso Elisabetta Sgarbi, editor di Bompiani, la casa editrice che lo pubblica: «Mi aveva chiesto un commento a un documentario su Trieste, le è piaciuto e mi ha suggerito: perché non lo ampli, non ne fai un saggio, un’indagine sul rapporto tra il nascere a Trieste e la letteratura?»
Accettando il suggerimento, s’è scontrata coi suoi principi?
«Ma no, un saggio è diverso da un’opera narrativa. E la proposta era interessante, sollecitava qualcosa che avevo già in mente…».
Quello che ne è venuto fuori però non è un saggio, ma un «memoir», un’autobiografia dei suoi primi vent’anni che ha una forza narrativa tremenda, come l’angelo del titolo, un vero romanzo di formazione, mi pare.
«Romanzo? Be’, sì, possiamo pure definirlo così, anche se non c’è nulla di inventato. Ho solo scelto di selezionare gli eventi che racconto in relazione alla mia sensibilità personale».
Lei racconta la storia terribile di una figlia che cresce tra due genitori atroci, figure che compendiano una mostruosità familiare, un’insensibilità, una pedagogia sadica quali si trovano, in genere, solo nei grandi romanzi ottocenteschi. Viene in mente Dickens.
«È una storia che avevo già affrontato, in altro modo, nel mio libro Per voce sola. Fellini, quando lo lesse, alluse anche lui a Dickens. Dei libri recenti, disse, “è l’unico che mi ha commosso”».
Questo libro, nella prima parte, quella dell’infanzia della protagonista – lei stessa – vive d’ombre, d’oscurità. Il gelo e l’indifferenza di padre e madre, le macerie dell’ultima guerra, la memoria dei caduti dell’altra, i fumi neri delle caldaie a carbone che gravano sulla città, le cupe notti insonni di una bambina ossessionata dal terrore. «Avevo una passione per la morte», scrive.
«C’era una patologia della Storia, incombente sulla città, e c’era la patologia della mia famiglia, che mi schiacciava. Eppure allora, disperata com’ero, pensavo però che tutti i genitori fossero come i miei, si comportassero allo stesso modo. In fondo solo adesso, raccontandoli, mi sono resa conto di quanto siano stati spaventosi, diversi».
Ha saputo farne dei personaggi letterari colossali, comunque. E personaggi straordinari sono tutti quelli del suo parentado, molti tremendi anch’essi, inchiodati a ritratti spesso brevi, definitivi. Altri ricchi, complessi come la sua nonna materna, il modello della nonna di Va’ dove ti porta il cuore.
«Mio padre era davvero colossale (una figura tra il dandy e l’hippie, vagabondo, donnaiolo, egoista, nichilista, sedotto dai misticismi orientali, d’inaffidabilità assoluta, ndr), ma per quanto ne racconti, in realtà ne so ben poco. Spariva per tanto tempo! Non so che cosa abbia fatto nella sua vita. Quanto al resto dei parenti, inoltrandomi nelle loro vite mi è sembrato d’inoltrarmi in antri romanzeschi, più andavo avanti più si aprivano cunicoli… Sì, ho avuto la tentazione di inoltrarmi di più, ma era fuori tema».
Il tema mi pare fosse Trieste e la vocazione letteraria, ma «fuori tema» c’è andata subito. Della vocazione letteraria in tutta la prima parte del libro non c’è traccia, anzi. Lei dice con chiarezza che alla letteratura non ci pensava affatto, i libri non li leggeva.
«Scrivere per lungo tempo non è stato il mio interesse prioritario. La mia passione era l’indagine naturalistica. Ma scrittura e indagine naturalistica sono entrambe espressione del mio desiderio di indagare il senso della vita».
Lo sviluppo dei suoi interessi zoologici, botanici è raccontato estesamente. Pagine bellissime e pochissimo «italiane» di esplorazioni entomologiche, malacologiche… Invece alla vocazione letteraria, quando le si rivela, dedica sì e no dieci righe. Oltrettutto la scopre non leggendo un libro, ma guardando un film, Andrej Rublev…
«La scelta della letteratura non è spiegabile. Io credo che per me la scoperta della letteratura sia stata simile all’apertura del terzo occhio. Un’illuminazione immediata. Ho capito: devo fare questo».
Difatti il suo tema, nel libro, non è il rapporto tra la vita che ha fatto a Trieste e la vocazione letteraria, ma come la vita che ha fatto a Trieste sia stata l’alimento stesso di quella vocazione, il terreno dov’è caduto il seme. E poi – puf! – il fiore è sbocciato di colpo.
«Il clima di morte, la memoria della morte e della violenza – le due guerre entrambe incombenti, nei ricordi e nelle rovine – è stato molto importante, importante quanto la vita in famiglia».
In che senso?
«Forse noi, la generazione dei nati negli Anni 50 – quelli nati a Trieste, poi! – siamo gli ultimi che hanno ascoltato i testimoni della patologia della Storia. I nonni di oggi non hanno radici negli orrori della guerra, non possono raccontarli ai nipoti. E i nipoti non hanno più rapporti con l’orrore. Io da quei racconti invece ho attinto. La memoria dell’orrore è importante».
Ci sono lampi straordinari di umorismo che attraversano la sua storia terribile. C’è una pacificazione finale coi genitori morti…
«Solo perché ce l’ho fatta. E posso guardare le cose con asciuttezza di sentimenti. Scrivere questo libro è stata una grande liberazione».