Il filosofo ha il merito di aver definito per primo la metafora, sia nella Poetica sia nella Retorica, e in quelle sue definizioni sosteneva che essa non è puro ornamento bensì una forma di conoscenza. Umberto Eco, L’Espresso.it
È appena uscito in italiano un curioso libro di Peter Leeson, “L’economia secondo i pirati. Il fascino segreto del capitalismo” (Garzanti, 21,60) dove l’autore, storico americano del capitalismo, spiega i principi fondamentali dell’economia e della democrazia moderne prendendo come modello gli equipaggi delle navi pirata del XVII secolo (sì, proprio quelle del Corsaro Nero o di Pietro l’Olonese, con la bandiera col teschio che, all’inizio, non era nera bensì rossa, da cui il nome “Jolie rouge” che in inglese era stato poi storpiato come “Jolly Roger”).
Leeson dimostra che, con le sue leggi ferree, a cui ogni pirata per bene si atteneva, la filibusta era un’organizzazione “illuminata”, democratica, egualitaria e aperta alla diversità: in poche parole era un modello perfetto di società capitalistica.
Su questi temi ricama anche Giulio Giorello nella sua prefazione e pertanto non mi occuperò di quanto dice il libro di Leeson, bensì di una associazione di idee che mi ha fatto sorgere. Perbacco, chi, anche senza poter sapere niente del capitalismo, aveva tracciato un parallelo tra pirati e mercanti (vale a dire imprenditori liberi, modelli del capitalismo futuro) era stato Aristotele.
Aristotele ha il merito di aver definito per primo la metafora, sia nella Poetica sia nella Retorica, e in quelle sue definizioni inaugurali sosteneva che essa non è puro ornamento bensì una forma di conoscenza. Non sembri cosa da poco perché nei secoli successivi la metafora è stata vista a lungo solo come un modo di abbellire il discorso senza tuttavia cambiarne la sostanza. E ancor oggi c’è qualcuno che la pensa così.
Nella Poetica diceva che capire le buone metafore vuole dire “sapere scorgere il simile o il concetto affine”. Il verbo che usava era “theoreîn”, che vale per scorgere, investigare, paragonare, giudicare.
Su questa funzione conoscitiva della metafora Aristotele tornava con maggiore ampiezza nella Retorica dove diceva che è gradevole ciò che suscita ammirazione perché ci fa scoprire una analogia insospettata, vale a dire ci “mette sotto gli occhi” (così si esprimeva) qualcosa che non avevamo mai notato, per cui si è portati a dire “guarda, è proprio così, eppure non lo sapevo”.
Come si vede in tal modo Aristotele assegnava alle buone metafore una funzione quasi scientifica, anche se si trattava di una scienza che non consisteva nello scoprire qualcosa che era già là, bensì, per così dire, nel farlo apparire là per la prima volta, nel creare un modo nuovo di guardare le cose.
E quale era uno degli esempi più convincenti di metafora che ci mette qualcosa sotto gli occhi per la prima volta? Una metafora (che non so dove Aristotele avesse trovato) per cui i pirati venivano detti “provveditori” o “fornitori”.
Come per altre metafore Aristotele suggeriva che si individuasse, per due cose apparentemente diverse e inconciliabili, almeno una proprietà comune, e poi si vedessero le due cose diverse come specie di quel genere.
Anche se i mercanti erano di solito considerati brave persone che andavano per mare a trasportare e vendere legalmente le loro merci, mentre i pirati erano dei mascalzoni che assalivano e depredavano le navi di quegli stessi mercanti, la metafora suggeriva che pirati e mercanti avessero in comune il fatto di operare il passaggio di merci da una fonte al consumatore.
Indubbiamente una volta che avevano depredato le loro vittime, i pirati andavano a vendere i beni conquistati da qualche parte e quindi erano dei trasportatori, provveditori e fornitori di merci – anche se i loro clienti erano probabilmente imputabili di incauto acquisto.
In ogni caso quella fulminea somiglianza tra mercanti e predatori creava tutta una serie di sospetti – così che il lettore era indotto a dire: “Così era, e prima mi sbagliavo”.
Da un lato la metafora obbligava a riconsiderare il ruolo del pirata nell’economia mediterranea, ma dall’altro induceva a qualche sospettosa riflessione sul ruolo e i metodi dei mercanti.
Insomma, quella metafora, agli occhi di Aristotele, anticipava quello che poi avrebbe detto Brecht, che il vero crimine non è rapinare una banca bensì possederla – e naturalmente il buon stagirita non poteva sapere che l’apparente boutade di Brecht sarebbe apparsa tremendamente inquietante alla luce di quanto è accaduto negli ultimi tempi nel mercato finanziario internazionale.
Insomma, non occorre far finta che Aristotele la pensasse come Marx, lui che faceva il consigliere di un monarca, ma capirete come mi ha divertito questa storiella dei pirati. Diavolo di un Aristotele.