Articolo: Per non cedere alla paura

Stanco e pallido. Poi un attacco di febbre, la diagnosi e mesi di lotta senza perdere il sorriso. Testimonianza raccolta da Denise Matticoli su Donna

 

 

Appena arrivammo nel reparto dove sarebbe stato ricoverato, vide gli altri bambini, gonfi, senza capelli, con un colorito diverso dal suo: capì subito che per molto tempo avrebbe fatto una vita diversa. Aveva sette anni e mezzo, e intuì che la cosa non si sarebbe risolta facilmente. L’ho scoperto un giorno d’autunno. Il primo campanello d’allarme era stato un suo progressivo decadimento fisico: era sempre stanco, non aveva voglia di giocare, e stava diventando di un pallore giallognolo. Lui non si lamentava, si chiudeva nel silenzio, ma capivo che c’era qualcosa che non andava. Poi una punta di febbre molto alta, una corsa in ospedale a fare le analisi e, in un paio d’ore, mi dissero cosa aveva.

Partimmo immediatamente alla volta dell’ospedale Bambino Gesù a Roma, dove c’è la divisione ematologica attrezzata per questi casi. Il mio pensiero fisso durante il viaggio, e durante tutto il percorso di chemioterapia di mio figlio, era quello di salvarlo. Gli dissi che non stava bene, e che dovevamo andare in un ospedale più grande, dove avremmo trovato medici più bravi. Gli ricordai che a Roma c’era mio fratello, lo zio preferito, e durante il tragitto abbiamo giocato e riso: sin dall’inizio ho cercato di rendere la situazione il più leggera possibile. Quando gli fecero il primo prelievo midollare alla schiena, pianse e urlò. Gli stette accanto mio fratello, perché io non me la sentivo di affrontare quel passaggio doloroso. Finito l’esame, chiese allo zio che cosa gli avessero fatto.

Mio fratello, in un tono scherzoso gli disse: «Sai, ti hanno messo una targa dietro la schiena, e ci hanno scritto dove abiti, perché questo ospedale è molto grande, così se ti perdi, ti mettono un francobollo sull’orecchio e ti spediscono a casa». È cominciato tutto come un gioco: non doveva assolutamente sospettare la gravità della sua situazione. Dalla comparsa della malattia fino alla guarigione sono trascorsi 2 anni: siamo stati fortunati, infatti la terapia può durare molto più tempo, e soprattutto, qualcuno non riesce a concluderla. I primi nove mesi sono intensi. Se si supera con successo questa fase, si passa a una terapia di mantenimento.

Durante tutto questo percorso il bambino era molto più sensibile, e particolarmente attento alle persone che aveva intorno. Gli avevo spiegato che la cura per il suo malessere sarebbe stata lunga, che avrebbe dovuto prendere tante medicine. Doveva avere pazienza, e tutto sarebbe passato. Ho sempre usato un tono leggero, cercando di impostare tutti i vari passi della terapia come fosse un gioco. Una volta mi disse: «Tu mi dici sempre che passa, ma io mi sento sempre più male». Fu difficile convincerlo a prendere le medicine: come tutti i bambini era restio. Per insegnargli a ingoiare le pillole gli dissi: «Guarda: la devi mettere in bocca, poi bevi un grosso sorso d’acqua, così la bocca si riempie e la pillola si muove come una barchetta: prima naviga in superficie e poi scende giù».

All’inizio fece un po’ di capricci, ma imparò: adesso ingoia tranquillamente tutto. È come con il succo di frutta: la cannuccia serve per fare più in fretta. A differenza degli adulti, i bambini non possono fare la chemioterapia con gli aghi in vena, perché non riescono a stare fermi, e rischierebbero di rovinarsi le vene. È necessario applicare sul torace un tubicino, il catetere venoso centrale fisso. Questa cosa lo spaventava molto, per tranquillizzarlo gli dissi: «Vedi, quando bevi un succo di frutta usi la cannuccia per fare prima. Questo tubo che ti devono mettere serve soltanto per fare più in fretta». Quando perse i capelli, incominciammo a scherzare sulla cosa chiamandolo “testa di lampadina”, e lo rassicuravo sul fatto che dopo sarebbero ricresciuti.

Non ha mai chiesto il perché della sua malattia, e soprattutto non gli ho mai fatto percepire che avrebbe potuto non essere fra i fortunati che ce l’ hanno fatta. Sminuivo qualsiasi inconveniente. Una notte, durante la terapia con la Vincristina (un farmaco chemioterapico), ebbe un blocco alle vie urinarie e gli fu messo il catetere. Quando arrivai in ospedale, mi disse preoccupato: «Mamma, guarda cosa mi hanno messo stanotte: il catetere!» Gli risposi sdrammatizzando: «Ma lo mettono a tutti! Anche a me dopo che sei nato».

Per le prime trasfusioni gli chiedevamo: «Quale sangue vuoi? Puoi scegliere: quello di Biancaneve, Peter Pan, o quello dell’Incredibile Hulk. O preferisci il sangue di un altro eroe? Mica vuoi quello di Cenerentola? Per te che sei un maschietto è meglio quello di Hulk», gli suggerì lo zio. E lui: «Mamma, ma se io adesso mi arrabbio, divento verde come Hulk?». «Non ti arrabbiare, mi raccomando, se no ti trasformi e fai crollare tutto l’ospedale!», gli risposi. Era lacerante fingere con lui, trasformare tutto in gioco, sapendo quello che aveva. Il mio lavoro in ambito medico da un certo punto di vista mi rendeva la cosa più difficile, dal momento che ero perfettamente consapevole del tipo di sostanze che gli iniettavano, e delle conseguenze che avrebbero avuto sul suo corpo.

La chemioterapia è un veleno, ma vivaddio che c’è, perché riesce a salvare qualcuno. Aveva paura, ma non ne parlava. Il suo senso di angoscia era latente, ma palpabile. Non voleva stare da solo: «Se mi succede qualcosa, che faccio?», questa era la sua preoccupazione. Infatti non potevo staccarmi da lui. Se qualche volta non riuscivo a essergli accanto per motivi di lavoro, dovevo comunque lasciarlo in compagnia di una persona adulta. Il contatto fisico era l’unica cosa che gli dava sicurezza. In ospedale dormiva nel suo letto, e io riposavo vicino a lui, su una branda: dovevo tenergli la mano tutta la notte. A casa nostra dormiva con me, lo abbracciavo per infondergli sicurezza. Nel reparto c’è un clima piacevole, a dispetto della situazione drammatica. Tra i genitori si instaura immediatamente un’alleanza: nasce una gran forza dal confronto fra persone che devono gestire lo stesso problema.

Anche tra i bambini si crea subito complicità: parlano molto, a volte di nascosto dai genitori. Si raccontano le loro esperienze, si danno consigli, si incoraggiano. Ricordo un bambino che, come la maggior parte degli altri all’inizio della terapia, non voleva prendere le medicine. Tutti cercavamo di convincerlo. Mio figlio gli insegnò il trucco della barchetta. Purtroppo, nonostante la cura, adesso quel bambino non c’è più. Mio figlio non lo sa. Quando qualche bambino non ce la fa, ci si chiude ognuno nella propria camera e si cerca di distrarre i piccoli, di farli giocare, per non far capire quello che è successo. E se alcuni non vedendo più il compagno di giochi chiedono dov’è, gli si dice: «È andato a casa».

Una finta gara di pattinaggio nei corridoi: tutto diventa un’opportunità per sdrammatizzare In alcuni momenti i genitori lasciano i bambini giocare tra di loro, per esempio quando in reparto viene l’animatrice, come se stessero soli a scuola. Trovano sempre il modo di divertirsi: mio figlio e gli altri bambini che portavano le flebo sulle rotelle, si divertivano a vedere chi era più veloce a percorrere il corridoio, come fossero in una gara di pattinaggio. Ogni particolare può servire da spunto per guardare alla loro situazione in modo scherzoso: le pareti sono piene di disegni e decorazioni, e un gioco era quello di indovinare la medicina che i diversi pesci stavano prendendo: il pesce palla che è grasso prendeva il cortisone, cioè il medicinale che fa gonfiare; il pesce magro stava prendendo invece il methotrexate, e così via.

Dopo il primo ricovero, durato tre mesi, volli riportarlo a casa almeno per le vacanze di Natale. Era sotto terapia d’urto, quindi erano necessarie importanti precauzioni: il catetere doveva essere lavato ogni 3 giorni, bisognava cambiare la medicazione ogni sette giorni. Fu faticoso, ma per lui fu un grosso sollievo tornare nel suo ambiente e riacquistare la sua dimensione. Durante il viaggio mi aveva chiesto: «Mamma, chissà se mi ricordo com’è fatta la mia casa». Adesso ha 10 anni. Ha cominciato a riacquistare serenità dopo il suo ultimo ricovero, quando gli è stato tolto il catetere venoso centrale: avere quel tubicino che esce dal torace era una cosa innaturale. In quel momento ha capito che la parte più brutta della terapia era finita e si stava rientrando nella normalità.

I primi nove mesi sei come in un’altra dimensione, non hai nemmeno il tempo per piangere. La disperazione viene dopo, quando passa il momento cruciale, quello della chemioterapia. Ti cambia il modo di vedere la realtà: le cose superflue per cui ci si arrabbia tutti i giorni perdono senso e valore. Quando quest’anno mio figlio ha fatto la comunione, non riuscivo a vedere la cerimonia: vedevo i bambini che non ci sono più. In quel reparto non sei la mamma solo di tuo figlio, sei la mamma di tutti i bambini ricoverati. Anche quelli ti appartengono.

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