Dal sito convinzioni.it di Gabriella d’Albertas
“Qualunque cosa si faccia e ovunque si vada, dei muri ci si levano intorno creati da noi, dapprima riparo e subito prigione”.
Marguerite Yourcenar
C’è un racconto Sufi che narra di un cane maltrattato che stava morendo di fame, l’unica cosa che aveva era un osso quasi completamente spolpato. Il cane era così affamato che mordeva quest’osso voracemente, tanto che non si accorse nemmeno che un anziano signore, avendolo visto molto denutrito, gli aveva portato del cibo. E morì di fame.
Questa storia parla di noi, dei nostri attaccamenti alla nostra storia personale del passato. Abbiamo vissuto vicende dolorose che ci hanno provocato sofferenza, ma anche quando il peggio è passato, continuiamo a tenere vivo quel copione, rimanendo attaccati ad esso come quel cane al suo osso, e questo ci porta a vivere e sperimentare gli stessi sentimenti di allora e lo stesso dolore. Potremmo lasciarci alle spalle tutta quella sofferenza, ma invece la portiamo dentro, perché ci siamo identificati in quella storia. L’abbiamo fatta diventare la ‘nostra’ storia.
Il cane della storia Sufi si era raccontato che lui era una povera bestia maltrattata, che nessuno gli avrebbe mai dato da mangiare altro che un osso già spolpato, e che avrebbe dovuto accontentarsi di quel poco perché la vita non avrebbe potuto offrirgli di meglio. Quando la situazione esterna cambiò, l’animale non notò il cibo a sua disposizione perché non faceva parte del copione che lui stesso aveva scritto per sé.
Qual è dunque la storia che ci stiamo raccontando? Quale racconto, che poteva essere vero per il passato, continuiamo a tener vivo nel presente e a proiettare nel futuro? Ci sono molti tipi di storie, ma cià che le accomuna è che sono storie di dolore, difficilmente il nostro copione è gioioso, più spesso è intessuto di sofferenza, di insoddisfazione, di risentimento e di impotenza.
Alcuni si raccontano che devono portare i pesi altrui sulle proprie spalle, perché gli altri non sono in grado, e così facendo si creano un’esistenza dura e sacrificata (ma quando gli si offre aiuto dicono di non averne bisogno); altri si convincono che la vita non è generosa con loro, che si devono conquistare tutto, con fatica e sudore (e quando arriva qualcosa facilmente non riescono ad apprezzarlo); altri ancora pensano di non essere all’altezza del prossimo e si raccontano una storia di inferiorità che spesso li accompagna tutta la vita (e se riescono bene in qualcosa, per loro è un’eccezione non significativa); poi ci sono quelli che si raccontano che la gente è ingrata e si sentono sfruttati (ma quando vengono apprezzati e ringraziati non lo notano neanche); e così via.
La prima cosa che dobbiamo fare, dunque, è individuare la storia di dolore a cui siamo attaccati come quel cane al suo osso. A quella storia noi abbiamo inchiodato la nostra identità, gettando via la possibilità di essere liberi. Anche se non lo sappiamo, i peggiori carnefici di noi stessi siamo proprio noi.
Una volta che riconosceremo la storia che ci siamo raccontati e che raccontiamo al mondo, non sarà difficile renderci conto che ne siamo fortemente aggrappati, e se sapremo essere abbastanza sinceri con noi stessi, lo riconosceremo presto.
Perché dunque ci teniamo attaccati a storie tanto dolorose? Perché sono le ‘nostre’. L’ego ha talmente paura di perdere ciò che è suo che ne rimane aggrappato, indipendentemente dal fatto che questo ci provochi gioia o dolore. La parola d’ordine dell’ego è: tenere.
Così ci teniamo le nostre storie anche quando le condizioni esterne sono completamente cambiate, poiché i vecchi stati d’animo ci rigettano nel nostro vecchio copione, anche quando non ce n’è più motivo. Riviviamo il dolore del passato nel presente e lo proiettiamo nel futuro.
Lo stato d’animo (o potremmo chiamarla anche l’energia) di carenza con cui quel cane viveva lo ha portato a morire di fame anche se le condizioni esterne erano di abbondanza. Allo stesso modo, rimanendo aggrappati alla nostra vecchia energia, questa ci mantiene nella stessa situazione di un tempo, perché anche se le condizioni esterne sono cambiate noi non ce ne accorgiamo.
Quando ci rendiamo conto che continuiamo imperterriti a raccontarci la stessa storia (che naturalmente ricreiamo attraverso le convinzioni e le emozioni ad essa connesse), dobbiamo come prima cosa decidere di rinunciare ad identificarci in quella storia e in quella manciata di caratteristiche che la contraddistinguono, positive o negative che siano.
Siamo infinitamente piò ricchi di quello che ci raccontiamo, abbiamo molte più qualità e più possibilità di esprimerci. Se solo accetteremo di distaccarci dalla sicurezza che ci offrono le sbarre della nostra angusta cella, in cui ci siamo rinchiusi con la nostra storia, ecco che potremo uscire, finalmente liberi di esprimere le nostre potenzialità. E scopriremo di essere molto più grandi di quello che crediamo.
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