Eperienze di malattia ch modificano la vita dell’intera famiglia. Chi assiste il malato vive spesso dinamiche affettive che modificano profondamente lo stile di vita e il modo di sentire i rapporti interpersonali. Dal sito web ucare.it
Dicono che il nostro cervello cerchi di rimuovere quello che di brutto accade nella vita per tentare di soffrire di meno. Io ricordo ogni singolo particolare, ogni parola, ogni dettaglio di quei giorni. Era il 28 ottobre 2008. Non era ancora arrivato il freddo e il tempo era instabile come è tipico di questa stagione. Dopo aver pranzato, discutevo insieme a mia sorella come dimenticare il giorno del nostro compleanno. Siamo gemelle e certe decisioni vanno prese insieme. Questo compleanno non aveva un senso e festeggiarlo sarebbe stato inutile.
Un mese prima mia nonna se ne era andata. Nell’estate aveva subito un cambio di peacemaker e i medici non avevano nascosto nulla: «Il cuore della signora è gravemente compromesso e non sappiamo quanto potrà funzionare». Parole, ricette, attese telefoniche per prenotare visite specialistiche, attese in sala d’aspetto … La vita di un paziente è segnata dall’attesa, fino all’attesa della morte.
Non ho mai accettato la morte di mia nonna perché era malata fin da quando era piccola e ogni visita che segnalava disguidi cardiologici non aveva molto senso perché tutto sarebbe andato avanti come sempre. La medicina dopo la colazione e poi la mattinata al supermercato, ai fornelli e seduti al tavolo a pranzare insieme. La medicina dopo pranzo, dopo il sonnellino, il rosario in televisione e il pomeriggio nell’orto. La sera dopo cena altre medicine e poi la televisione accesa fino alle nove.
La vita di mia nonna era assolutamente normale dopo quel grosso infarto di cui non ricordo nulla perché da bambini si vive in un mondo a parte. Mio nonno poi l’aiutava con devozione prima che l’inizio della vecchiaia o dell’alzheimer gli facesse dimenticare come si vive…
Prima dell’intervento era stata ricoverata nell’altro ospedale della città perché si era sentita male, ma per il peacemaker biventricolare doveva cambiare struttura. Alle nostre richieste di concentrare tutte le analisi e l’intervento in un unico ospedale la risposta è stata: «Mi dispiace, ma le analisi pre-intervento fanno parte del pacchetto reimpianto peacemaker».
Quel settembre, dopo settimane passate tra un ospedale e l’altro, avevamo deciso di mandare i miei nonni per qualche settimana in un «soggiorno sollievo» in modo da garantire loro, soprattutto a mia nonna che non aveva superato molto bene l’ennesimo intervento, un po’ di riabilitazione. Scelta difficile e sofferta, ma indispensabile per salvaguardare il nostro sistema nervoso. Nostro, o meglio di mia madre: figlia unica, con parenti di cui non ricordo il nome dalla frequenza delle loro visite e della loro vicinanza, con il lavoro, con una famiglia a cui badare e due genitori cardiopatici che esigevano cure e rassicurazioni per non andare alla deriva.
La sera a casa nostra si dorme con la porta aperta perché troppe volte il telefono ci ha svegliato nel cuore della notte e a turno, la voce di mio nonno o di mia nonna che ci avvisava preoccupata della mancanza di respiro dell’una o dell’altro. Le badanti non si trovano con facilità e le assistenti sociali guardano solo ai casi ormai senza speranza e non pensano a dare speranza a quei casi dove si può ancora fare qualcosa.
Il lunedì avevo accompagnato personalmente i miei nonni in questa casa di risposo per autosufficienti e ovviamente a pagamento. A pochi passi dal centro della città e venti minuti in macchina, quaranta a piedi da casa nostra. Mia nonna aveva salutato la sua casa come quando partiva per la sua quindicina di giorni al mare o per i suoi due mesi in montagna. Ma era ormai da tre anni che il mare non lo vedeva e la casa in montagna era chiusa e impolverata da oltre due anni. Quel pomeriggio ero tornata insieme a mia sorella e, dopo aver litigato con mio nonno che rifiutava l’idea di stare in quel posto per dieci giorni, avevo salutato mia nonna che usciva in sedia rotelle dalla cappella dove aveva appena ascoltato il rosario.
Insieme le avevamo prenotato la parrucchiera per la mattina dopo e poi ci eravamo distese sul suo letto a parlare e le avevo infilato le calze pesanti. Ogni tanto giocavo con la sua sedia rotelle, per sdrammatizzare la situazione e il suo affaticamento. Ci eravamo lasciati in sala da pranzo per la cena con l’attesa che il giorno dopo saremmo andate a prenderli per una visita in centro città. Almeno la sedia a rotelle sarebbe servita a qualcosa. Uscendo da quell’edificio per la prima volta piansi, senza motivo o forse perché iniziavo a rendermi conto che qualcosa sarebbe cambiato o semplicemente per la stanchezza dell’ennesima estate immersa nelle malattie degli altri.
La mattina dopo ero passata nuovamente con il giornale per mio nonno e un bacio per mia nonna. Il pomeriggio sempre dopo pranzo, la telefonata. Poi tutto diventa ancora più chiaro e veloce. «La signora Alba si è sentita male mentre era in bagno». Prendiamo due macchine, ormai eravamo esperte nel gestire le emergenze. Io arrivo per prima e lascio la macchina in mezzo alla strada perché vedo l’ambulanza e mia nonna su una barella.
«Nonna che cosa succede?». Il suo braccio che si toglie la maschera dell’ossigeno e sta per dirmi qualcosa ma la portano via. Il medico che mi dice «ICTUS la portiamo all’ospedale di B.T.». «Mamma il medico ha parlato di ictus ma stai tranquilla la nonna sta bene ho visto che voleva parlarmi dopo ti spiegherà lei. Vai con Manuela all’ospedale, io aspetto a casa». Prendo mio nonno e tutte le loro cose e torniamo noi due insieme a casa. Passo il pomeriggio tra una telefonata e l’altra e nessuno sa nulla. Sistemo gli abiti di mia nonna, tranquillizzo mio nonno e la sorella di mia nonna che bestemmia e penso che come al solito torneranno a casa dopo ore con una medicina nuova da aggiungere alla lista. Mia nonna non è tornata a casa.
Sono andata a trovarla il giorno dopo, non l’ho riconosciuta subito perché aveva una maschera sul viso.. La parte destra del suo corpo era immobile e non poteva parlare. Era in una camera con sei persone e una delle pazienti a 100 anni aspettava di morire dietro una tenda che oscurava il suo letto. Incominciai a piangere perché lei era cosciente di tutto e non poteva parlare. Piangevo quando accompagnavo mio nonno che non capiva e le parlava e diceva di alzarsi di venire a casa. Piangevo perché dopo due giorni un’assistente sociale aveva iniziato a cercare un posto in un istituto perché «la signora non può tornare a casa così».
Piangevo perché non stavo troppo spesso con lei, ci davamo il turno in famiglia e la notte restava da sola perché era inutile starle vicino. Piangevo perché i medici non sapevano nulla. Poi ho pianto quando ho ricevuto la telefonata. Domenica mattina verso le undici mentre ci stavamo preparando per andare all’ospedale: «la signora si sta aggravando venite!». Io lo sapevo che era già morta. Poi tutto crolla e si deve smettere di piangere perché bisogna affrontare la burocrazia della morte: organizzare il funerale, scegliere la lapide, predisporre la successione dei beni, ritirare i certificati di morte… E poi mio nonno che da qual giorno aveva iniziato a distaccarsi da tutto. Solo quella volta l’ho visto piangere, quando siamo tornati dall’ospedale con il borsone senza mia nonna.
Quel pomeriggio mentre parlavo con mia sorella ho ricominciato a piangere. Dopo un mese la mancanza era sempre più pungente e il dolore ancora più forte. La burocrazia non era ancora finita e avevamo accompagnato mia madre all’ufficio dove stava riconsegnando il permesso degli invalidi di mia nonna. Una lunga fila di persone mi aveva spinto insieme a mia sorella a regalarci una passeggiata in centro. Eravamo su un ponte lungo il fiume e ricordo che guardavo con rabbia, ingiustizia e disperazione, come mi era già successo altre volte, alcune vecchiette camminare con i loro bastoni e i loro sacchetti della spesa. Mia nonna doveva essere lì, non loro.
All’improvviso mia sorella si ferma sul ponte mentre sta parlando al cellulare e fa domande strane del tipo «Chi te l’ha detto? Dove lo stanno portando? Ma sai cosa è successo?» realizzo subito: mio nonno sta male e lo portano all’ospedale, e con egoismo penso che forse lui sarà più fortunato di noi e raggiungerà presto la nonna. «Silvia, corri stanno portando papà all’ospedale. Dobbiamo andare a prendere la mamma. Un suo collega ha detto che si è sentito male mentre stava salendo in macchina. Dai corri!». No! Questo era troppo. Ma cosa poteva essere successo? Basta ospedali, medici e infermieri. Basta. Dovevano ancora rimarginarsi ferite profonde e qualcuno ci colpiva di nuovo.
Per la strada, ferme in coda, un’ambulanza con il suo suono assordante ci aveva superato. Mio padre non aveva niente di grave, ora stava bene e non era successo niente di grave, almeno così speravo. Poi, dopo una lunga attesa al pronto soccorso, lo vedo sulla barella. Non ha nulla, è ancora vestito con la camicia e i pantaloni eleganti della mattina. Ha un braccio dietro la nuca e uno sotto il lenzuolo che lo avvolge completamente. Corro da lui: «Papà, cosa succede?». Il cuore si è fermato e per un secondo sono morta. Non parlava, o almeno farfugliava qualcosa indicando la parte destra del suo corpo che non si muoveva.
Urlo:«Mamma è come la nonna,mamma!!». «Emorragia celebrale, non sappiamo ancora se possiamo operarlo. La moglie può venire con noi? Dobbiamo sapere quali medicinali prende».
Abbiamo aspettato fino a tarda sera. Siamo tornate a casa con i suoi vestiti senza di lui. In reparto ci hanno detto che dovevano vedere come passava la notte e l’indomani avrebbero fatto una TAC. Una macchia di sangue si vedeva nettamente all’interno del suo cervello e dovevano quantificare i danni che aveva provocato anche se era presto per sapere. Di notte non riesco a dormire e penso che da un momento all’altro squilla il telefono e dicono che è morto. Meglio così, piuttosto di vederlo per tutta la vita in quelle condizioni è meglio che lo pianga da morto.
Telefoniamo noi il mattino seguente e dicono che la notte è passata bene. Che cosa vuole dire bene? Una TAC, si aspetta la risposta. Bisogna dirlo al resto della nostra famiglia: un’anziana zia e mio nonno. I parenti più stretti di mio padre lo sanno già e qualcuno prova ad aiutarci. «Nonno, papà è all’ospedale, stai tranquillo è solo per un accertamento, fra qualche giorno torna a casa». Sarebbe tornato a casa dopo quattro mesi, ma nessuno lo sapeva ancora. La storia si ripete, quale storia si può raccontare in un reparto di neurochirurgia? Mio nonno una sera chiama a casa nostra e non trova nessuno, forse si sente solo, la badante si può fermare solo mezza giornata e il resto del giorno mio nonno vive con i suoi fantasmi. Prende l’autobus e da solo, a quasi novant’anni, arriva al letto di mio padre.
Il giorno dopo la badante ci chiama e dice: «il Sig. Cesare piange e chiede perché il Signore non ha ridotto lui così risparmiando Giovanni ancora giovane.» Me lo sono chiesta anch’io. Mi sono anche chiesta perché non avrei potuto morire prima di vivere tutto questo. La mia vita, perfetta fino a quel settembre, nel giro di due mesi tutto era franato. Intanto iniziava la nostra lotta: lottavamo per capire da mio padre che aveva lasciato un paio di occhiali nel tal negozio, che doveva pagare la macchina perché tra due mesi sarebbe andato in pensione, che voleva il cellulare, il suo filo diretto con il mondo. Iniziano le visite patetiche e le telefonate vuote. «Lo vedo bene, si riprenderà subito».
Osservo bene l’espressione delle persone che vedono mio padre per la prima volta in quel modo e quando apre la bocca per parlare e non si capisce niente. Espressioni di pietà, di nostalgia di quando mio padre era Giovanni e non quell’uomo nel letto. Un giorno mi domanda uno specchio e vuole vedere se si vede così tanto la paresi sul suo viso. Non si vede nulla, almeno questo. Il giorno dopo torno a casa la sera e con la macchina nuova di una settimana vado addosso al cancello di casa. Anche la parte destra della macchina è da rifare. Ancora lato destro e danno permanente. Nella mia storia manca proprio la fantasia. La macchina viene aggiustata con una considerevole somma di denaro ma il corpo e il cervello di mio padre hanno bisogno di cure che non hanno prezzo.
La prima speranza ci viene a fine settimana quando decidono che il lunedì mio padre sarebbe stato trasferito nel reparto riabilitativo di N.. Il sabato sera vado con mia sorella e mia madre da mio nonno, ormai non dobbiamo fingere nulla e ci lasciamo andare allo sconforto anche con lui. La badante, che quella sera si ferma e cena con noi, prende dal frigo un torta con 23 candeline: «Buon compleanno Silvia e Manuela!» Grazie, nessuno se lo è ricordato, nemmeno i parenti e nemmeno noi del resto, con mio padre ridotto così. Ma che importa, e la nostra vita dove è finita? E’ già stata annientata dalla macchia di sangue prima di mia nonna o poi di mio padre? Tanti auguri Silvia!
E leggo il biglietto di auguri che mia nonna mi aveva scritto il 31 ottobre dell’anno prima: «Cent’anni di questi giorni!». Quando vedo per la prima volta mio padre nel nuovo centro riabilitativo è parcheggiato su una sedia a rotelle in un corridoio. Ha i pantaloni di una tuta e la giacca del pigiama. Con la mano sinistra tiene in mano il cellulare ma non riesce a usarlo. Non ci riesco a vederlo così e lo aiuto a infilarsi il cappotto e insieme a mia sorella lo portiamo nel giardino del centro. La sera lo aiutiamo a mangiare, e parliamo con un signore molto più anziano che ci conforta dicendo che lì fanno miracoli. Inizia così la nostra nuovo vita: avanti e indietro da quell’ospedale, a un’ora di macchina da casa nostra. La sera dobbiamo fermarci perché da solo non riesce a mangiare e ha bisogno… di una mano. A casa nostra ci stiamo per dormire e mangiare e studiare. Manca poco alla laurea e gli ultimi esami e la tesi ci occupano la testa almeno per un po’. La lavatrice continua a funzionare per lavare i cambi quotidiani di mio padre e nel tempo libero andiamo al cimitero per cambiare i fiori sulla tomba di mia nonna.
La riabilitazione ha inizio e i risultati si vedono. Mio padre inizia a parlare, o almeno a farsi capire, ma il primo nome che dice non è quello di sue figlie ma quello di una sua collega, ma non importa è un risultato anche questo. La gamba destra si muove leggermente e inizia a mangiare non più a letto ma nella saletta da pranzo del piano. Inizia a chiederci i giornali anche se guarda solo le figure ma è il cellulare il suo oggetto più prezioso. Iniziano le visite dei suoi amici. Ma sono i colleghi che si turnano in modo che ogni pomeriggio ci sia qualcuno.
Sono contenta di vedere con quanta attenzione si preoccupano di mio padre: sono tutti sorrisi e portano ogni giorno cioccolatini. Poi le questioni più fredde riguardanti il lavoro le riservano a mia madre.
Ignorano la nostra presenza perché sono tutti concentrati sul malato. Fanno persino i complimenti a mia cugina per quanto è graziose nei suoi vestiti e con le sue borsette colorate. Noi siamo vestite sempre di nero, non abbiamo voglia di scegliere con cura il guardaroba prima di andare all’ospedale. A nostro modo portiamo il lutto. Dopo un po’ iniziano a infastidirmi tutte quelle visite. Quando dobbiamo parlare di questioni famigliari per tentare di prendere in mano tutta quella contabilità che gestiva prima mio padre, arriva qualcuno con il solito pacchetto di cioccolatini. Dopo due ore se ne vanno e noi riprendiamo a parlare del budget familiare e mio padre è stanco e iniziamo a litigare. Quando torno a casa la sera tardi li mangio io tutti quei cioccolatini, almeno sono antidepressivi?
I giorni passano e le visite aumentano, mio padre è pieno di gratitudine per i suoi amici e sempre meno con noi. Iniziamo a parlare di cambiare casa, viviamo al secondo piano senza ascensore. Gli anticipiamo di vendere la sua macchina, tanto non tornerà più a guidare. Mio padre non accetta tutto questo e i litigi si prolungano. Per fortuna che le speranze aumentano e siamo grate al personale della struttura per il lavoro che stanno facendo. Incominciamo a conoscere gli altri pazienti e le loro storie.
All’inizio c’è solidarietà ma presto i miei pensieri si fanno più cinici. I famigliari guardano i progressi degli altri malati e fanno paragoni. Ci sono giorni in cui penso che mio padre è più avanti rispetto ad altri, poi vedo che il vicino di camera ha già incominciato e camminare e gli faccio pressione e si litiga anche per questo. Un giorno il medico ci convoca e dice che mio padre non sarà più in grado di stare da solo in casa. Mi arrabbio con mio padre. Non può rovinare la sua vita e la nostra in questo modo perché non si è più fatto una visita di controllo per la pressione alta! «Papà io ho la mia vita da farmi, trovati la badante».
Piange, piange anche di fronte ai soliti colleghi che sono arrivati. Ma il giorno dopo inizia a reagire. Nel giro di due mesi è in grado di camminare con il bastone e parla meglio. Il medico ci anticipa che per Natale tornerà a casa per qualche giorno. Siamo terrorizzate perché non abbiamo l’ ascensore, perchè la nostra casa è a due piani e il bagno è piccolo. La macchina più grande che abbiamo è la 500, le macchine grosse le ha avute sempre lui, e non sappiamo se così instabile com’è, riesce a sedersi.
A Natale vado a messa all’alba con mio nonno, non so se lui prega, io no. I giorni delle festività sono i più lunghi da trascorrere con i nostri vuoti e le nostre paure. Mio padre cade dal letto quando dorme. Io non sento nulla, me lo racconta mia madre alla mattina. E’ difficile per lui abituarsi anche ad usare il bagno in quella casa che proprio lui aveva disegnato in ogni dettaglio. In mansarda, il capolavoro di un geometra che disegna finestre per mansarde, non viene più: le scale sono troppo strette e ripide. Imparo a fare da sola tutto quello che lui faceva prima. Imparo persino a cambiare le lampadine. E per fortuna. La sera di Natale rimaniamo al buio perché la luce del Signore proprio non vuole illuminare la nostra casa.
Poi continua il pellegrinaggio dei colleghi a casa nostra. Noi laviamo continuamente tazzine di caffè e dopo il teatrino del pomeriggio in cui mimiamo la famiglia perfetta, restiamo da sole perché mio padre è stanco e si riposa sul divano e guarda la tv. Lo portiamo a passeggiare ma fatica ancora e il bastone non lo usa. La sedia a rotelle è troppo pesante da portare in casa e rimane al piano terra.
A febbraio i medici decidono il trasferimento in un altro centro riabilitativo per continuare la cura. È più vicino a casa e ogni fine settimana mio padre rientra in famiglia. Piano piano costruiamo un equilibrio precario per sopravvivere. Sistemiamo gli oggetti in casa in modo da facilitare il suo ritorno alla vita. Lo accompagniamo dove lui andava prima da solo. Immagino che sia umiliante per lui e così spiego il suo nervosismo.
La riabilitazione non è solo fisica ma anche psicologica e mira al suo reinserimento nella vita normale. Continua le lezione di logopedia, gli insegnano a prendere l’autobus da solo e persino a fare la spesa. Una sera alla settimana lo portano in una pizzeria vicino al centro riabilitativo e un giorno alla settimana devono cucinare i pazienti. Vorrebbero insegnargli persino a mangiare da solo con la mano destra anche se con scarsi risultati.
La degenza nel centro finisce e mio padre deve riprendere in mano la sua vita e noi la nostra. Io e mia sorella discutiamo la tesi di laurea specialistica a un giorno di distanza l’una dall’altra. I festeggiamenti ci sono ma la tristezza rovina tutto. Sono passati due anni e tutto è cambiato. Ci siamo trasferiti in un’altra casa.
Mio padre continua la riabilitazione due giorni alla settimana. Guida una macchina con il cambio automatico con la quale ritorna sempre vicino all’azienda dove lavorava prima anche se ora è pensionato. Nel mattino prende il pane e i giornali e nel pomeriggio esce da questa casa che non sente sua. Dicono che è stato bravo a recuperare così tanto, ma io non ci credo e sono convinta che potrebbe fare di meglio. L’ultima visita non è andata bene, il medico dice di vederlo peggiorato. Il braccio destro aspetta ancora di liberarsi da quel “ghiaccio” che lo irrigidisce. Ricomincia a trascinare la gamba e cammina poco.
I colleghi e gli amici non vengono più a casa nostra. Ogni tanto mio padre esce con loro a cena. Ci sono giorni in cui si sente depresso e non parla. Sempre più spesso parla con noi il minimo indispensabile durante la cena. Gli rinfaccio spesso la sua indifferenza e lui risponde che non vuole essere un peso per noi, ma io sento che la sera rimane al cellulare per delle mezz’ore parlando e ridendo con i suoi amici.
Sembra che a volte sia arrabbiato con noi per quello che è successo, come se la colpa fosse di mia madre o mia e di mia sorella. Dice che non potrà più ridiventare quello che era prima e dobbiamo accettarlo così. Ora ci sto provando e l’abitudine ormai fa accettare anche l’impossibile. Mio nonno è ancora vivo, ha oltre novant’anni e vive con la badante. Rimane ancora prigioniero di una vita che non è più la sua. La memoria non lo aiuta più e ripete le stesse domande fino all’esaurimento della nostra pazienza. Io continuo a raccontargli della mia vita anche se so che dopo pochi minuti dimentica tutto. Qualche barlume di lucidità gli rimane e forse in quei momenti lentamente inizia a morire.
I lutti non sono finiti ma ora non piango più. Penso a quanto è stato fatto per mio padre e quanto non è stato fatto per mia nonna… Mi sento inaridita, quando sopravvivi alla disperazione diventi meno umano di prima. Nella mia famiglia le sabbie mobili si sono prosciugate, abbiamo smesso di sprofondare sempre più in basso nel vuoto. Ora viviamo in una palude dove nulla cambia e dove i ricordi del passato sono l’unica consolazione.
Dicono che tutto quello che accade ha un suo perché: io lo sto ancora cercando.