M’accostai al letto immerso nella penombra. L’uomo che intravvidi disteso era immobile, neppure si volse per veder il nuovo arrivato. Non mi meravigliai, poiché la famiglia mi aveva preavvertito: “… non ama i convenevoli, parla di sé soltanto in terza persona. È in profonda crisi d’identità. La malattia l’ha prostrato.”
Gli presi la mano e me ne stetti zitto, in attesa. Dopo un po’, volse gli occhi verso me e bisbigliò qualche parola. Avvicinai l’orecchio: -Vuoi che parliamo?- stava ripetendo.
Risposi che sì, che ero lì proprio per comunicare.
-Sai già della malattia, delle operazioni, della chemio?
-So tutto. Di che cosa parliamo?
Fu lì che cominciò il suo racconto, in terza persona, secondo il preavviso.
-Quando si risvegliò, l’aurora stava allungando tenui rosee dita nel velluto sbiadito della notte preannunciando un nuovo giorno.
In fondo, brontolò fra sé, gli sarebbe piaciuto assistere al prolungarsi all’infinito della notte informe. Di un’infinita impermeabilità e opacità ambientali. Da tempo egli s’era accorto di averne le brache piene di ragionamenti affilati e rigorosi, preferendo lasciarsi galleggiare su onde di vaghezza, di parole vaghe. Infatti la sua era stata una notte immemore e felice, trascorsa in placido dormiveglia, con la rotondità ferma e rassicurante della bottiglia sotto la mano destra. Le costellazioni avevano ruotato con buona volontà attorno alla stella polare … oppure saremo noi a piroettare come una magnifica trottola che ha l’impugnatura proprio alla stella Polare?, la luna non s’era mostrata per nulla ed i temuti passi dell’emicrania avevano rinunciato a manifestarsi, limitandosi alla finezza di un larvato annuncio nelle vicinanze del suo sistema sensoriale, lasciando scarse trascurabili punture di spillo a mezza fronte, sul sopracciglio destro.
L’ultimo esperimento aveva mostrato la bottiglia ormai trasparente e vuota: a ben guardare, tendendola contro il levante incandescente, era riuscito a discernere un’ultima unghia di vino presso la gobba vitrea del fondo, ma quella non ebbe cuore di bersela, preferendo compiere il sacrificale gesto di restituire quel liquido alla terra, nella speranza di procurarsi una possibile gratitudine.
Con certa difficoltà e vincendo il desiderio di continuare a giacere, si rizzò sulla panchina che l’aveva ospitato e guardò in basso verso il porticciolo, dove una piccola comunità di viaggiatori e facchini andava formandosi in attesa dell’arrivo del ferry-boat. È l’ora buona per rincasare, si disse depositando la bottiglia in un cestello verde ed avviandosi per uno dei vialetti, prima a passetti zoppicanti, poi via via sciogliendosi e riacquistando il passo consueto, sicuro ed irrevocabile, di cui era andato fiero negli anni.
Uscito dal fantasioso parco pubblico si ritrovò nella banalità del traffico cittadino; imboccò e risalì il vicolo dei verdurieri, profumato e vivace, s’arrampicò per gradini di pietra fino a quando trovò un bar già aperto. Sorseggiò un caffè ed acquistò un giornale, poi raggiunta la casa, ripescò la chiave nella fessura del muretto, aprì il portoncino ed attraversò la cucina raggiungendo la poltrona di vimini nel fresco del terrazzino. I titoli neri e le drammatiche fotografie del quotidiano tentarono d’aggredire la sua attenzione, ma la loro esagerata chiassosità lo persuase a non badarvi ed a procedere con leggerezza tra le pagine, come se quelle notizie in fondo non potessero realmente riguardarlo … fino a che lo sguardo non gli si adagiò nel grigiore delle colonne che accolgono gli avvisi economici di nascite e di morti.
Nel navigare con leggerezza fra quelle vignette ove con frasi ben collaudate e ripetitive i parenti degli estinti espongono, nell’imbarazzo fra il formale-ampolloso ed il succinto, le virtù degli estinti o il sorpreso cordoglio o una sintetica invocazione ad un’imperscrutabile divinità, il suo sguardo indugiò su uno degli avvisi poiché un qualche istinto gli aveva agitato un campanellino nella testa avvisandolo della presenza di qualche elemento d’interesse:
“Annunciamo con dolore la tragica improvvisa scomparsa di AMEDEO BUCALOSSI detto DEO, buon cittadino ed alacre Membro Volontario del Quartiere Pescaglino. I funerali si terranno domani 11 corrente alle ore 12 partendo dall’Obitorio comunale.”
L’elemento interessante di quell’avviso non derivava tanto dal tenore della compilazione o dall’assenza dei nomi di parenti ed amici in cordoglio, quanto dal nome del defunto. Infatti, e mi dolgo di non averne finora riferito, quello di Amedeo Bucalossi con l’aggiunta di Deo, erano precisamente gli estremi anagrafici indiscutibilmente personali dell’uomo di cui sto raccontandoti le vicende, di colui che, appunto, stava sfogliando il quotidiano nell’accogliente poltroncina di vimini sul terrazzo arieggiato della propria casa.
Naturalmente Amedeo rilesse più volte l’annuncio e poi se ne rimase assorto in profonda meditazione fino a quando il capo gli cadde sullo stomaco come per un colpo di sonno; a quel punto si scosse, abbandonò la poltroncina, abbrancò una forbice e, ritagliato con cura l’avviso, lo rispose ripiegato nel portafogli. Coi successivi gesti piuttosto automatici spalancò le ante del mobiletto che reggeva il televisore, ne trasse una bottiglia che stappò cautelosamente per riempire un bicchiere di vino. S’avvicinò alla finestra e ricontrollò il profilo lontano delle colline di là della valle, sorseggiando il suo vino e chiedendosi se cedere all’allegria oppure allo sgomento, nell’incongruo ma non disperato tentativo di esorcizzare i pochi minuti appena trascorsi da quando era rientrato in casa, e la lettura del giornale.
Quando gli effetti della sorpresa finirono d’esalare, Amedeo si rese conto improvvisamente di quanto luminosa sarebbe potuta trascorrere quella mattinata senza l’avvento del maledetto avviso economico del giornale; forse la sua pace avrebbe vegetato serenamente se, invece d’avviarsi verso casa, egli avesse diretto felici passi verso il porto, oppure se avesse semplicemente rinunciato a comprare il giornale. Infatti, chi poteva garantirgli che, fresco di una notte fantasmagorica come quella appena vissuta nel parco pubblico, quelle poche linee di scrittura sarebbero esistite ove il caso non glie le avesse poste sotto gli occhi? Oppure s’egli fosse tornato a casa gustando l’aroma delle ultime stille di caffè snidandole con la lingua dai recessi più segreti tra guancia e gengiva e, senza impicciarsi di novità, se ne fosse rimasto ad ammirare lo spettacolo catartico del digradare allegro e banale dell’esercito di casette cubiche verso la pianura? Spettacolo grato e sempre ricercato che ora, sotto la spinta delle nuove sensazioni, andava perdendo le più godibili connotazioni.
Mosse le labbra emettendo gargarismi scontrosi ed imprecanti. Quella di brontolarsi addosso, come se soltanto nella solitudine di se stesso dovesse trovare la causa dei suoi mali, la forza per combatterli ed il piacere di riposarsi a successo ottenuto, era diventata ben più che un’abitudine presa con noncuranza nei suoi lunghi anni trovandosi a dover provvedere risposte a propri quesiti appena percepiti e mai chiaramente espressi, giusto per scoprire le proprie reazioni. E, dunque, bofonchiò collane d’imprecazioni a fior di labbra, concludendo a più riprese, e saggiamente, che anche all’uomo dabbene possono toccare di tali incomprensibili eventi: la propria umanità si prova anche nel modo come si possano debellare o trascurare.
Certo doveva trattarsi d’un fatto d’omonimia, andava ripetendosi, ma quell’ipotesi appariva difficile da praticare a fronte del sospetto d’un semplice increscioso errore o, peggio, d’uno scherzo architettato da chissà chi, forse da qualcuna delle tristi ancròie, abituali artefici di celie cruorenti che svolazzavano lugubremente nei locali ed uffici della sede del Quartiere Pescaglino. In quest’ultimo sospetto ingollò il vino residuo rammentando che in quella cittadina un suo omonimo non era mai vissuto: l’accesso ai dati anagrafici comunali gli aveva permesso d’accertarlo da gran tempo. Restava dunque in piedi la congettura d’uno scherzo, concluse fra sé, ricolmando il bicchiere di vino e poi abbrancando il telefono per mettersi in comunicazione con gli uffici amministrativi del quotidiano maledetto che andava appallottolando tra le mani.
La risposta ai suoi quesiti fu abbastanza sollecita: l’avviso di morte era stato inoltrato e debitamente saldato in anticipo da un congiunto del decuius; tuttavia il nome di tale congiunto doveva rimanere segreto in obbedienza alla legge sulla privacy. Sentito poi il cronista di nera, per caso presente in redazione, il cadavere doveva trovarsi tuttora in obitorio.
Di primo acchito Amedeo respinse l’incombente immagine della sua persona intenta a sollevare veli dai tavolacci in un’immensa sala gelida nel fetore di disinfettante poi, tornato alla finestra panoramica come ad uno sperimentato confessore, a poco a poco pervenne alla convinzione che, giunti a quel punto, una gita in quel luogo innominabile ed increscioso non poteva essere trascurata o rimandata. Anzi finì per persuadersi di non poter concedersi neppure un breve indugio. Tanto più che, verosimilmente, dopo il sopralluogo la questione si sarebbe subito accomodata da sé, con due parole e una conseguente adeguata rettifica.
Impiegò il quarto d’ora successivo nel raggiungere l’ospedale provinciale e girarvi attorno lungo la recinzione rugginosa, fino a raggiungere il basso fabbricato di mattoni rossi che incorniciava un furgone delle pompe funebri, alcuni trespoli, carrelli e cuscini di vecchi fiori abbrustoliti nel sole estivo. Un taciturno inserviente lesse il ritaglio di giornale che Amedeo gli aveva consegnato insieme ad un biglietto di banca, fece un cenno d’assenso e s’avviò nella penombra d’un salone occupato dalla fila dei tavoli. Si chinò alcune volte per compitare foglietti applicati ai ripiano di marmo fino ad arrestarsi indicando col dito un telo che poi sollevò d’un colpo.”
Stavo ancora tenendo la sua mano, fredda e quasi senza vita: “E allora, gli dissi, che cosa vedesti?
“Il corpo nudo appariva bianchissimo dove non coperto di peluria grigiastra. Amedeo fissò il torace robusto cercando l’ardire di indagare il volto. Questo, pur ombreggiato dalla barba lunga di qualche giorno e rigido in una smorfia a metà tra sorpresa e sofferenza, gli parve famigliare, cosicché dovette chinarsi per meglio esaminarne i particolari: ruga verticale sulla fronte, bocca lineare come un taglio di coltello, labbra troppo sottili, naso alquanto largo e narici gremite di peli: esattamente la simmetria del volto ch’egli da sempre individuava nello specchio, ogni mattina, prima di passare il rasoio elettrico e pasticciare i brufoli! Il suo volto. Il suo stesso volto: neppure il neo sul basso della guancia sinistra era stato omesso. Né l’antica cicatrice alla radice della gola, esito d’un intervento chirurgico conseguente ad un’antica stenosi allergica.
L’inserviente non lo perdeva d’occhio e doveva aver percepito il suo turbamento. Udendo il pigro scalpiccio dei suoi passi, Amedeo ritenne che l’importo della mancia avesse ormai compiuto il proprio ufficio e si sollevò dall’esame.
-Com’è accaduto?
-Lo racconta il giornale. Caduto nella tromba delle scale dell’ufficio del lavoro. Una disgrazia, o peggio.
-E i parenti?
-Si son viste alcune persone. Nessuna ad asciugarsi una lacrima. Lei non è un parente, si capisce.
-Gli indumenti, i documenti?
-In Questura. Come sempre in questi casi.
Uscì nel sole e si diresse verso la sede del quartiere dove negli ultimi mesi aveva prestato servizi di volontariato. Nell’atrio, sul tabellone dei comunicati, una pagina di quaderno con una banda nera tracciata col pennarello “Il nostro amico e collega Deo (Amedeo Bucalossi) ci ha improvvisamente lasciati. La sua operosa e serena compagnia ci mancherà. Ciao, Deo!”
Non ritenne di entrare negli uffici: sentì invece urgente il bisogno di isolarsi per riflettere un altro poco sui troppi avvenimenti che s’erano affastellati sulla sua mattinata. Ritornò a passi rapidi verso casa, risentì la rugosità delle selci della sua via. S’avvicinò alla sua casa, ma dovette arrestarsi scorgendo un furgone parcheggiato proprio davanti al portoncino di casa sua. La meraviglia crebbe notando come la via fosse del tutto libera di veicoli in sosta e dunque non esistesse motivo perché quel furgone se ne stesse proprio là.
In quel mentre il portoncino s’aprì e due tipi in maniche di camicia ne uscirono reggendo una poltrona. La sua poltrona di velluto. La poltrona di Amedeo. Bucalossi. Con calma professionalità la poltrona venne issata sul furgone ed i due rientrarono in casa.
Deo se ne stette un bel po’ ad osservare gli eventi. Anche il tavolo, le sedie, la poltroncina di vimini, il televisore seguirono la sorte della poltrona. Seguiti dalla pila dei suoi dischi di musica classica e dalla pila dei romanzi gialli.
Passo passo, simulando indifferenza, Deo s’avvicinò al furgone mentre uno dei facchini sistemava i piatti in una cesta, ogni piatto separato dagli altri da un rettangolo di carta di giornale. Quel suo avvicinarsi circospetto dovette insospettire l’uomo che s’interruppe fissandolo con cipiglio tra l’interrogativo e l’intimidatorio.
-Desidera qualcosa?
-No, perché?
-Eh, durante i traslochi c’è sempre qualche estraneo vicino al camion. Non è certo il suo caso, ma si può sempre adocchiare qualcosa di utile…- e se ne stette fermo come piantonando un tesoro.
-Di chi è … questa roba?
-Di un morto. Ora va agli eredi.
-E voi, chi siete?
-Incaricati, siamo. Impresa di facchinaggio. Legga sul fianco del furgone. Serve altro?
A quel punto gli strinsi fortemente la mano: – E tu, tu, che facesti a quel punto?- Egli non si scosse, ma continuò con voce neutra, come se per l’ennesima volta leggesse un testo noioso.
Che fare? Gli sopravvenne un disagio d’esclusione, un senso d’abbandono come aveva immaginato nei cani protervamente abbandonati lungo le banchine delle autostrade. Che fare? Protestare, imporsi, indagare, ricorrere all’Autorità, esibirsi, parlare con violenza, aggredire chissà chi? Ogni ipotesi gli parve non affrontabile, coi marosi d’incertezza che lo assalivano da ogni parte e le montagne di difficoltà che si prospettavano alla sua spossatezza, cosicché dovette concludere che, almeno per ora, diventasse opportuno tergiversare allontanandosi quel tanto dai fatti apparenti e conducendosi per qualche ora proprio come se nulla fosse stato scritto, stampato, letto, esaminato ed il tempo avesse continuato il suo viaggio in una diversa direzione, lungo itinerari in cui i giorni possano dipanarsi placidi ed incolori, come quelli che lui, Deo, ringraziando Dio, aveva vissuto negli ultimi mesi ed anni. Nella stessa pace ineffabile, ove aveva sperimentato possibile riaggregare le cellule del proprio essere in nidi imperturbabili dove la luce è ferma nei movimenti lenti del sogno, in sequele di gesti superflui e transitori che sanno svanire senza lasciar tracce di rimorsi o rimpianti.
Passo passo egli s’allontanò imboccando il piazzale ed il portone del supermercato. Girellò fra banchi e scaffali, ne uscì con un paio di bottiglie e trotterellò verso il parco parlottando fra sé, a volte scoprendosi a ridacchiare. Il parco è l’ultimo luogo che mi rimane, e già pregustava l’immersione in una prossima notte atemporale, senza esiti d’albedo. Sedette sulla panchina prediletta, stappò una bottiglia e subito l’accostò alle labbra. Risentì il vino saporoso come sempre: pastoso e piccantino su lingua e palato. Bevve lunghi sorsi fino a ritrovare lo stato di sublime anagogia che cercava e così rimase in pace a fissare il frettoloso brulicare degli gnomi portuali presso la bocca spalancata del ferry appena amarrato.
S’udirono le campane annuncianti l’avvento della controra. Deo s’allungò sulla panchina che ora stava ricevendo l’abbraccio dell’ombra fitta dei tigli. Dormicchiò nella fiducia della soda rotondità della seconda bottiglia custodita sotto il braccio. Si risvegliò nella sarabanda dei bambini arrampicati sul castello di tubi fatto montare in un’aiuola dall’assessorato comunale, su richiesta del quartiere partita da un’idea sua, del volontario Deo. Tutta quella vivacità lo rincuorò, si guardò attorno senza vedere altro che se stesso ed esclamò allo sbigottimento delle bambinaie:
-Ma se Deo è davvero morto, io chi sarò mai?
Nello spasimo di correr via dimenticò la bottiglia intatta sulla panchina. A passo di carica uscì dal parco, attraversò un paio di strade, raggiunse il negozio del vetraio, vi s’accostò col respiro ormai mutato in singulti convulsi e là, in un malefico specchio, poté finalmente individuare la visione che inconsciamente aveva tentato di esorcizzare fin dal mattino: l’arruffata immagine di uno sconosciuto che andava riscontrando le proprie fattezze ignote e sgomente.
ROMANO FEA (Volontario Anapaca)